7 settembre 2023
Inserito da: Redazione R&CA
Macroeconomics
Nei mesi estivi i dati macroeconomici hanno avuto una notevole evoluzione sebbene non evidenzino ancora un chiaro trend. L’offerta di moneta M3 dell’Eurozona è diventata negativa dallo scorso anno, EUR 15.6 trilioni a luglio 2023 rispetto agli oltre 16,2 di un anno fa; secondo gli economisti questo non porterebbe comunque ad una deflazione imminente. Il tema da considerare è che l’offerta di moneta va paragonata alla sua domanda e su questo punto è chiara la situazione di indebolimento dei prestiti bancari. Se dunque l’inasprimento della politica monetaria sta producendo i suoi effetti, rallentando la crescita del credito, sfortunatamente il rallentamento della stessa poco impatta su un’inflazione guidata da energia e dai profitti.
Crescita economica
A chiarire l’andamento del GDP Usa è ancora il mercato del lavoro che nonostante un primo ridimensionamento rimane solido con tassi di disoccupazione ai minimi storici (3,8% ad agosto). Gli effetti delle misure fiscali e la prospettiva di impatto degli aumenti dei tassi di interesse lasciano intravedere una crescita del 2% per il 2023, ma solo all’1,1% nel 2024, stime leggermente riviste al ribasso. Nonostante le attese di disinflazione dovrebbero accelerare il ritorno dell’inflazione al target del 2% citato dalla FED, l’obiettivo non sembra credibile a breve termine. Le attese sembrano più probabili nell’Eurozona dove la stagflazione potrebbe insistere nella parte finale dell’anno, con i fattori positivi post-pandemia in chiara attenuazione e tassi di interesse elevati che frenano la domanda. Il ciclo economico indebolito esclude al momento che l’Eurozona cada in una profonda recessione, sebbene i recenti dati su ordini e produzione in Germania offrano indicazioni molto negative. In questo scenario le prospettive a medio termine, 2025-2026, risultano più rosee delle attuali, con una politica monetaria meno orientata al restringimento e una politica fiscale a sostegno attraverso l’attuazione della Next Gen EU fino alla fine del 2026.
Scambi internazionali
Gli scambi commerciali sono tornati a risalire dopo il lungo fermo del Covid e l’intasamento del post Covid. Quello che non sorprende è anche il rimescolamento dei paesi e relativo peso di importazione ed esportazione di materie prime, semilavorati e merci. Le relazioni commerciali condizionate dalla guerra russo-ucraina e di contrapposizione diplomatiche tra Usa e Cina hanno ridisegnato gli scambi, mentre il Baltic Dry Index che segnala il costo dei noli marittimi si riposiziona intorno ai 1000 punti ovvero nella sua media precedente l’impennata del 2020. Quindi non solo il flusso di gas e petrolio interrotto dalla Russia ha trovato importazioni aggiuntive dall’Africa, ma anche molti semilavorati e prodotti che prima venivano dalla Cina vedono nuovi fornitori. E’ evidente che il ‘nearshoring’, spostamento della produzione offshore in vicinanza, e il ‘friendshoring’, importazione e produzione offshore in paesi con forti relazioni diplomatiche, siano cresciuti in modo deciso. Le prove di questa riorganizzazione della catena di approvvigionamento hanno mostrato per la prima volta dal 2008 che la Cina non è più la principale fonte di approvvigionamento per gli Stati Uniti, sostituiti in gran parte con importazioni messicane e canadesi. Nonostante la dipendenza dalla Cina continui il cambiamento nelle relazioni commerciali degli Stati Uniti evidenzia quindi vantaggi per altre regioni.
Alternativi alla Cina
Gli analisti evidenziano come paesi di America Latina e Asia emergente, come Messico, India e Vietnam, stiano beneficiando dei costi contenuti, dell’integrazione nelle catene di approvvigionamento globali e relazioni di fiducia con gli Stati Uniti. Il ‘nearshoring’ ha sicuramente dato impulso ai mercati azionari messicani e al peso rispetto all’USD; l’industria automobilistica messicana ha ricevuto afflussi record di Investimenti Diretti Esteri pari a 5 mld $ nel primo semestre dell’anno. In India il governo sta attuando il ‘friendshoring’ più attraente riducendo le imposte sulle società per la nuova produzione manifatturiera dal 25% al 17% e realizzando investimenti significativi nelle infrastrutture. Il Vietnam condivide una situazione simile con atteggiamento incentrato alla crescita offrendo salari di produzione molto favorevoli. Nonostante si tratti di un trend ancora parziale queste indicazioni risultano utili nella diversificazione di portafoglio verso i mercati emergenti.
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